Paolo Borsellino stilizzato

19 luglio 1992. Ore 16:58. Via D’Amelio, Palermo.

Credo che tutti gli italiani sappiano cosa sia accaduto 27 anni fa. Coordinate, luoghi, nomi e fatti sono impressi nella memoria di ognuno di noi. Da decenni, ogni 23 maggio e ogni 19 luglio, si ricorda l’anniversario delle stragi di Capaci e di via d’Amelio con articoli, servizi al telegiornale, fiction, film, foto e post sui social. Ed è giusto che sia così. Quello che mi lascia sempre un po’ di amaro in bocca, in queste giornate, è che il ricordare di molti di noi (forse di ognuno di noi) non è davvero un ricordare profondo, un fermarsi a riflettere e a ragionare, quanto piuttosto un frettoloso condividere foto che ritraggono i due Giudici e gli uomini (e la donna!) della scorta accompagnato da un veloce commento sui toni del “Non vi meritavano”, “Eroi!”, “Fuori la mafia dallo Stato”, “La mafia è una montagna di merda!” (anche se tendenzialmente quest’ultima frase risalta di più il 19 maggio), e altri commenti che variano dalla pietà alla riconoscenza, ma insozzate dall’ipocrisia che segue.

Sì, parlo di ipocrisia. E datemi anche dell’esagerata, ma trovo quanto mai irrispettoso nei confronti di chi ha dedicato la propria vita al perseguimento della giustizia e del senso civico e morale, il fatto che ci si senta bravi, pii, civili e con la coscienza pulita solo per il fatto di gridare alla lotta alla mafia esclusivamente (quando va bene) due giorni all’anno senza soffermarsi un attimo a riflettere e a farsi un esame di coscienza.

Troppo facile puntare il dito contro il Capo dei Capi. Certo, noi nella nostra quotidianità non uccidiamo decine di persone con kalashnikov, tritolo o acido, ma la mafia non è solo questo.

Se si spendono dieci minuti ad ascoltare o leggere con attenzione le parole di Falcone e Borsellino, e a capirne il vero senso, noteremo subito che il loro messaggio è ben più profondo, ma allo stesso tempo semplice, diretto e rivolto a ciascuno di noi: sono l’indifferenza, l’ipocrisia, il compromesso ciò che ci accomuna alla mafia. Il voler fregare il prossimo, il cercare scorciatoie, l’egoismo malato e spregiudicato. Il non rispettare le regole, il “Tanto lo fanno tutti”, il “Tanto per una volta che gli fa?”.

Non ricordo quando ho sentito nominare Falcone e Borsellino per la prima volta. So solo che dal 2004 le loro figure (insieme a quelle di altri grandi giudici, poliziotti, carabinieri) sono entrate nella mia vita e nella mia coscienza. Era il 2004 quando in televisione trasmisero una miniserie in due puntate dal titolo Paolo Borsellino, che narrava la storia del pool antimafia di Palermo dal 1980 al 1992. I miei genitori mi dissero di guardarla insieme, avevo 14 anni. Cresciuta a pane, Disney e commedie romantiche assistevo a quella narrazione senza capire. Non capivo perché coloro che erano palesemente nel giusto e che si battevano per il bene di tutti venivano massacrati con facilità, tra l’indifferenza generale. Quello che più mi lasciava sbigottita era il fatto che queste persone venivano per lo più umiliate, mortificate, abbandonate, criticate negativamente. Quello che mi pungolava era il fatto che risposte sicure, concrete ed effettive su chi avesse fatto cosa non erano mai arrivate e che in generale la popolazione accettasse passivamente questo non sapere, non fare giustizia.

Da quel giorno, nel mio piccolo, decisi di informarmi di più su queste grandi figure della giustizia italiana.

Ciò che più mi colpì furono due cose: la giovanissima età di molti poliziotti e funzionari dello Stato caduti in questa guerra e la lucidità e il coraggio non solo di Giovanni Falcone, ma ancor di più di Paolo Borsellino, soprattutto nei 57 giorni che seguirono dall’uccisione del secondo dal primo.

Quando ero una quattordicenne, l’avere 30 anni mi sembrava una cosa lontanissima dalla mia realtà. Leggevo i nomi degli agenti della scorta e dei poliziotti caduti (alcuni neanche venticinquenni) e mi sembravano impavidi eroi lontanissimi dalla mia realtà. Oggi che di anni ne ho quasi trenta leggere quei nomi e pensare che molti di loro avevano la mia età o quella dei miei amici, mi dà da pensare e mi serve da monito. Mi ricorda che persone molto più giovani di me avevano idee chiarissime in merito a cosa sia giusto o meno e a come comportarsi di conseguenza, senza lasciarsi fermare dalla paura. Illuminati dai fari giuridici e morali di Falcone e Borsellino, percorsero l’unica strada che ritenevano possibile seguire.

Borsellino

Nel mio piccolo posso dire che Falcone e Borsellino hanno illuminato anche la quotidianità della mia strada. La lucidità, il coraggio e il senso civico e morale con cui Borsellino ha continuato imperterrito, e anzi con ancora più fervore, per la strada della giustizia dopo la strage di Capaci mi lascia un profondissimo senso di rispetto nei suoi confronti. Uomo, marito, padre di famiglia. Gli affetti, la paura, lo spirito di conservazione e di sopravvivenza che è insito nell’indole dell’uomo, non lo hanno fermato. E ciò che mi colpisce è che se si ascoltano i suoi discorsi o si leggono i suoi scritti ha agito così non perché si riteneva un supereroe, ma perché quello era il suo dovere non solo giuridico, ma anche morale ed etico. L’unica strada percorribile, per lui, era quella.

Non mi addentrerò in un approfondito discorso che riguarda le differenze e i punti di contatto tra dovere giuridico e dovere morale (anche perché non sono una filosofa e non ho adeguate competenze e conoscenze in merito), basti pensare che siamo nel titanico scontro tra norma giuridica e norma morale, tra morale e diritto, tra giustizia, legge divina e coscienza, tra norme fissate dall’esterno e legge interiore. Ecco, ritengo che il giudice Borsellino sia riuscito a bilanciare tutto ciò con estrema chiarezza, lucidità e abnegazione.

Credo che se ognuno di noi, con tutta l’umiltà di questo mondo, instillasse nel proprio vivere civile anche solo una goccia degli insegnamenti di Paolo Borsellino, aiuterebbe a creare un Italia migliore. Quando timbriamo il biglietto anche solo per fare una fermata d’autobus. Quando facciamo lo scontrino anche solo per 50 centesimi incassati. Quando per ottenere un posto di lavoro non ci facciamo raccomandare. Quando andiamo a votare essendoci adeguatamente informati. Quando paghiamo le tasse. Quando non buttiamo la spazzatura per strada. Quando andiamo a lavoro per lavorare davvero. Quando se in un luogo c’è scritto di non fare riprese e/o foto, noi non le facciamo. Quando siamo davvero coscienti del fatto che le leggi e le regole valgano per noi, per tutti, e non solo per gli altri.

Ho sproloquiato, lo so. Volevo essere coincisa, ma sono anni che ho questi pensieri che mi vagano per la testa e non li avevo mai buttati giù su carta. Un flusso di coscienza, più che altro. Probabilmente sconclusionato e poco chiaro. Spero che, se anche una sola persona spenderà cinque minuti del proprio tempo per leggere le mie parole, si soffermerà a riflettere sul fatto che basta davvero poco per avere, o non avere, un atteggiamento mafioso. E che quindi la lotta alla mafia non dev’essere limitata solo in queste giornate di memoria né solo verso il boss del clan.

Parliamone, discutiamone. Parliamo di cosa sia giusto e sbagliato e di quanto effettivamente noi facciamo nel nostro piccolo. Scambiamoci opinioni, non solo like sui social. Diffondiamo la cultura, perché è quando regna l’ignoranza, il non sapere, che si radica la sozzura.

Per riflettere e avviare una discussione con altri (o anche un proprio pensiero) vi lascio con due citazioni (ho messo in risalto i punti che per me sono più salienti).

La prima vede le parole di Paolo Borsellino in un discorso in seguito alla strage di Capaci:

Sono morti per noi, e abbiamo un grosso debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo, gioiosamente, continuando la loro opera, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere. La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse “La gente fa il tifo per noi!”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice, significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze.

La seconda è un dialogo tra Lorenzo Giammarresi e la moglie Pia, tratto dalla nona puntata della seconda stagione della serie tv italiana La mafia uccide solo d’estate:

            «Ti sei fatta raccomandare. Ma non lo capisci che questa è la mafia?»

«No, ma Massimo l’ha chiesta al provveditore, non al…»

«L’ha chiesta, punto. Non c’è bisogno della mano del boss co ‘a coppa e ‘a lupara. È l’atteggiamento mafioso che conta. E tu alla fine hai fatto come tutti gli altri. Hai piegato la testa a questo sistema schifoso che è la rovina di questo Paese, dove ognuno pensa sempre che le regole valgono solo per gli altri.»

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Entusiasta dell'arte in tutte le sue forme. Vado spesso a teatro e poi ve lo racconto.

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